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Il rapporto tra i media e Israele.

Tornato a dirigere per la seconda volta il Corriere della Sera lo scorso aprile (la prima direzione era stata dal 1997-2003), Ferruccio de Bortoli, 56 anni, da sempre vicino agli ebrei e al mondo ebraico, ci racconta a pochi mesi dal suo insediamento, come la pensa su Israele, il Medioriente, i media, il crescente razzismo.

Secondo te i giornali italiani dedicano sufficiente spazio al Medioriente?
No, non quanto sia solito trovarne sui quotidiani francesi o inglesi, ma quelli sono paesi con una tradizione culturale diversa, a volte diretta conseguenza di presenze coloniali o della diffusione maggiore della loro lingua. Inoltre la presenza di un’immigrazione integrata e consolidata li porta a dare più spazio agli esteri e alle relazioni con i Paesi di origine e di comunità forti e radicate.

Perché in Italia i giornalisti sono così spesso faziosi quando affrontano temi che toccano Israele e questione palestinese?
Il racconto giornalistico che è stato fatto nelle varie epoche della questione mediorientale è stato condizionato da fattori politici. L’atteggiamento della sinistra verso Israele è stato per molti anni troppo negativo. La sinistra individuava nella politica di Israele una prosecuzione della politica “imperialistica” degli Usa, la sua lunga mano nell’area. Innegabilmente il pregiudizio era molto forte e ha generato frutti avvelenati come l’antisionismo o una generica antipatia verso Israele e gli ebrei. Certo, il ripensamento della sinistra su Israele è stato tardivo ma approfondito e a mio avviso oggi è definitivo e irreversibile. Anche la destra italiana ha messo in atto un lodevole percorso di riavvicinamento e riconoscimento dei propri errori. Il rapporto della destra con Israele ha finito inoltre per suggellare il riconoscimento dei valori costituzionali e democratici.
Per tornare alla sinistra, mi viene in mente Bettino Craxi: da qualche tempo è stato rivalutato come statista e anticipatore di tendenze di fondo della politica italiana e europea. Tuttavia Craxi non fu mai lungimirante, diede troppa attenzione e credito all’Olp. Questo suo atteggiamento ha profondamente condizionato il racconto dei media, spingendolo all’indulgenza verso il mondo arabo, radicando i pregiudizi verso Israele e preparando il terreno al violento antisionismo che sarebbe perdurato per tutti gli anni Ottanta e Novanta. Oggi? Qualche residuo di questa avversione verso Israele permane in alcuni media, ma nel complesso il mondo dell’informazione italiana è molto meno fazioso di quello francese o inglese, i media italiani hanno esercitato un controllo maggiore, compiendo un cammino più libero, specie negli ultimi anni.

Eppure la reazione dei media alla guerra del Libano, due anni fa, è stata scandalosa, Israele è stato criminalizzato ancora una volta in toto.
Sì, è vero, la cosa fa pensare alla difficoltà di abbattere i pregiudizi e al fatto che la stampa, la gente in generale, è troppo spesso disposta a dare maggior credito agli aggrediti che alle ragioni degli aggressori. Non dimentichiamoci che Israele, pur con i suoi difetti, è l’unica democrazia del Medioriente e che chi fa errori ne paga il prezzo, come ad esempio è successo a Ehud Olmert, premier responsabile di quell’errore strategico che è stata la seconda guerra del Libano.

È quindi possibile oggi per un giornalista mantenere equidistanza su questo tema?
L’onestà intellettuale dovrebbe essere un pre-requisito di questo mestiere: perciò ciascuno di noi giornalisti deve sforzarsi di non cedere a facili pregiudizi o alla tentazione di far passare per vittime quelli che poi appaiono i veri responsabili del terrore. Dall’altro c’è da dire che gioverebbe a volte un diverso atteggiamento di Israele e delle comunità ebraiche verso le critiche rivolte alla politica israeliana, critiche che spesso vengono subito respinte e bollate come atteggiamento pregiudiziale o addirittura antisemita. Insomma l’eccesso di radicalismo nel difendere la politica di Israele a tutti i costi, rischia a volte di provocare atteggiamenti duri o freddi. Poter criticare la politica di Israele deve esse qualcosa di ovvio e accettato, fatto oggetto di discussione. E’ giusto conservare il diritto e la capacità di critica verso chiunque, Israele compreso, senza ogni volta temere di essere tacciati di coltivare pregiudizio. Io amo Israele, il suo fervore intellettuale, la sua vivacità in quasi tutti i campi del sapere, la sua modernità.

Tuttavia, è stato il violento tentativo di delegittimarne l’esistenza che ha suscitato questa difesa a spada tratta…
Certo, Israele va difeso fino all’ultimo, il suo diritto all’esistenza non deve mai essere messo in dubbio da nessuno, tanto meno da dittatori sullo stile di Ahmadinejad. Dirò di più, non si dovrebbero nemmeno intrattenere rapporti d’affari con paesi del genere. E non ci sono posizioni terze: con quelli che ne negano il diritto all’esistenza semplicemente non si parla e non si hanno rapporti.

Sei mai stato in Israele?
Sì, un paio di volte e voglio portarci anche i miei figli: credo che sia il miglior viaggio di formazione che si possa proporre oggi a dei ragazzi. La vita e la realtà israeliana ci portano a riflettere su tanti aspetti della storia recente europea e mediorientale, mette in moto sensazioni e pensieri estremamente stimolanti per la crescita di un giovane. L’ultima volta che venni in Israele fu per intervistare Ariel Sharon: mi colpirono il suo tratto affabile, gioviale e la sua enorme energia. Per l’uomo che è stato, il suo coma oggi è la peggiore delle morti.

Perché il Corriere non ha una sezione di Judaica?
L’avrà presto e colgo l’occasione di questa intervista per annunciarlo. Un’utile finestra per guardare con più attenzione al mondo e al pensiero ebraico, ma anche a quello delle scienze, delle lettere e a quanto si produce in Israele in termini di eccellenza intellettuale. Oggi, i più grandi ambasciatori di Israele nel mondo sono i suoi scrittori e pensatori.

Di ritorno alla direzione del Corriere, pensi di modificarne l’approccio sul Medioriente?
Vorrei inserire più analisi, commenti, originalità di approccio. Rispetto al Medioriente ad esempio, penso che meriti grande attenzione anche ciò che accade a livello scientifico e tecnologico. Non solo quindi dare conto della grande ricchezza culturale di Israele ma raccontare anche i mutamenti del mondo arabo, i suoi fermenti interni, le istanze democratiche che sono importantissime e che esistono, ci sono. Il giornalista non deve indossare nessun elmetto, ha il dovere di raccontare la realtà senza farsi condizionare ma seguendo criteri di giustizia e obiettività. Il Corriere è sempre stato storicamente vicino a Israele ma deve essere anche aperto a raccontare come muta la galassia araba in maniera che, ad esempio, posizioni lontane possano trovare un terreno di incontro, dando voce ai dissensi, cercando di smontare i pregiudizi e le false verità, disattivando tutto ciò che appare ufficioso, artificiale, di facciata. Dobbiamo avere come linea guida la ricerca della verità senza piegare i fatti a tesi e letture precostituite. Il Corriere è una casa che accoglie il meglio e che deve cogliere le linee di fondo che attraversano la società e la cultura, linee magari non ancora visibili ma che già serpeggiano sotto traccia.

Non sei preoccupato da forme di razzismo che sembrano aumentare ogni giorno di più in Italia?
Moltissimo. Vedo crescere forme di intolleranza che apparentemente sembrano risibili e estemporanee ma che se non vengono fermate subito possono produrre effetti gravissimi. Il timore del diverso, la paura verso lo straniero vanno governate e spiegate, razionalizzate e disattivate. Mi ha molto colpito il libro di Gian Antonio Stella, Negri froci giudei &Co, appena pubblicato. Compito dei media è sciogliere i pregiudizi, lottare contro le false paure facendo conoscere agli italiani le realtà di molti immigrati. Il che non significa essere indulgenti contro l’immigrazione clandestina, anzi. La severità ci vuole, pena far diventare l’Italia un paese-ricettacolo delle peggiori forme di criminalità. Ma avere regole severe contro l’immigrazione clandestina consente di avere regole giuste verso l’immigrazione regolare, verso persone che si stanno integrando nella nostra società, che lavorano e che vanno premiate, gente senza cui l’Italia del lavoro oggi non sopravviverebbe. Non dobbiamo scordare che tanti immigrati italiani in altri paesi sono stati oggetto di persecuzioni, ingiustizie, false credenze. Intendiamoci: la cosa non significa costruire una società disordinatamente multiculturale. Io credo che l’unica vera sfida da vincere sia quella di costruire una società ordinata e multietnica, capace di rispettare le diverse fedi e usanze, ma nel rispetto dell’italianità. Non dimenticando che l’italianità ha in sé una grande storia di tolleranza e convivenza tra etnie e fedi diverse e che dobbiamo guardarci dal peggio della nostra Storia, ad esempio, episodi come le Leggi razziali del 1938. Ricordandoci proprio di quella pagina nera: penso a quella domenica pomeriggio del 1944 quando gli ebrei milanesi, cittadini italiani come gli altri, furono portati nell’indifferenza generale al Binario 21 della stazione centrale e instradati verso i campi nazisti.